La storia di Angela
Come si fa a parlare ed ancor più a scrivere intorno a quella che è la paura principe, primordiale credo, di ciascun essere umano ….. “dissolversi nel nulla”, portando con sé quelli che sono o a questo punto dovrei dire sono stati, i propri pensieri, le proprie emozioni, i propri sentimenti.
Nella mia vita la ricerca del senso di tutto ciò si è fatta strada molto presto dentro di me, una ricerca il più delle volte non indolore, costellata da vari stati d’animo, talvolta altalenanti e forse non del tutto comprensibili nemmeno a me stessa. Quotidianamente ci si trova ad affrontare, sebbene più o meno inconsapevolmente, la paura di morire o forse di contro dovrei dire di vivere, ma quando tutto questo si concretizza nello sguardo penetrante, preoccupato ed al contempo dispiaciuto dell’interlocutore che hai di fronte, il quale nel rivolgertelo, lo accompagna con parole quali: “Sig.ra mi dispiace sono risultate delle cellule cancerogene, dovrà seguire una terapia…” resti per un attimo, o forse per più di un attimo, senza fiato, incredula, frastornata. Per inciso, lo sguardo che mi lasciò senza respiro era quello del mio, ormai, caro e simpatico dott. Minelli.
Tutto ciò stava seguendo ad una biopsia approfondita, il mammotome, che solo pochi mesi addietro aveva dato esito positivo; quest’ultimo peraltro confermato da un successivo controllo post-mammotome. D’altro canto, per mio scrupolo personale, avevo deciso di effettuare l’ecografia mammaria prenotata altrove già molto tempo prima del controllo semestrale post-mammotome, ma che non ero riuscita ad effettuare in tempo utile per portarla in visione al suddetto controllo. Un’ecografia fatta solo perché già vi era una data fissata in precedenza, e non per altro. Pertanto, razionalmente, non avevo motivo di dar molto credito ai pensieri che tra i tanti, comunque erano sempre lì in agguato, affinchè non abbassassi mai completamente la guardia. Fu proprio in quest’ecografia, però, che si evinse qualcosa di non chiaro, mai presentatosi prima; che, di fronte allo stupore ed allo sconcerto anche di chi poco tempo prima si era espresso positivamente, attraverso un ulteriore ago aspirato, mi scaraventò letteralmente in quella che sarebbe stata la nuova realtà da affrontare, del tutto inaspettata, d’altronde come immagino lo sia stata per molte di noi. Tutto questo mi riecheggiava dentro, perdonatemi il termine, come una grandissima fregatura, tanto più considerando che mi si prospettava l’idea che, non essendo il mio “Aggressore” ben individuabile, ciò comportasse il dover intervenire in maniera abbastanza incisiva, per evitare di essere esposta ad un rischio futuro troppo grande. Non so a voi, ma a me la fregatura sembrava essere doppia.
La mia domanda al dott. Minelli, quindi, al momento dello “scoop”, chiamiamolo così, fu se stessimo parlando di chemioterapia; quella tanto paventata terapia che nel tentare di ridonarti Vita, nel frattempo ti porta via quasi fino all’ultimo capello dal tuo capo. Come se ciò che contasse in quel frangente fosse la cornice e non il contenuto, al quale da sempre tentavo di volgermi, e al quale ora più che mai avrei dovuto cercare di dar voce. In realtà, avevo ben chiaro che in gioco c’era e c’è molto di più, tanto di più, di un capello cadente. Avevo avuto bisogno, però, di spostare il mio pensiero o solo le mie parole sui capelli che avrei perso, perché altrimenti avrei dovuto scontrarmi a muso duro con la possibilità di qualcosa di ben più prezioso da perdere. Ed eccoci qui con questa situazione da affrontare; concreta, tangibile, vera, non pensata o immaginata nella mia mente, ma da dover effettivamente attraversare. Ancora oggi nel parlarne e nello scriverne mi rendo conto che alcune emozioni non sono state del tutto metabolizzate, se non altro in quanto ancora in fase di “lavori in corso”. Però un pezzetto del percorso è stato, appunto, percorso e quindi come una sorta di viaggio catartico lo guardo a ritroso, cercando di trarne qualche piccolo insegnamento o comunque di coglierne i vari aspetti.
Mentre il mio cuore era intriso di mille timori, come a tratti lo è tuttora, mi veniva fatto notare da una persona, la cui anima ho sempre percepito molto affine alla mia, che ciascuno ha il proprio percorso da compiere; che il mio percorso era il mio, non paragonabile a quello di nessun altro, sebbene similare, e quindi condivisibile per tanti aspetti. Ma soprattutto si faceva strada dentro di me un pensiero che oggi sento in maniera molto vivida….. “E se tutto questo fosse arrivato per insegnarmi qualcosa? Se tutto ciò non recasse in sé solo un quid, un che, di totalmente negativo? E se dietro l’involucro, l’apparente scorza dura, scura, sporca, immediatamente visibile e palpabile a tutti, non si celasse qualcosa di positivo? Certo meno percepibile all’istante, ma molto più pregnante? Ovviamente, non ho tutte le risposte, anche se non nascondo che non mi dispiacerebbe averne qualcuna in più. Mi veniva detto che la Vita mi stava parlando; magari aveva un po’ esagerato nel tono, pensavo io, o forse no, non saprei, però ero anche cosciente che nel mio caso aveva dovuto forzare un po’ la mano per ricordarmi l’importanza di essa, della vita stessa, in qualunque forma si presenti. Certo, non è che proprio abbia fatto subito mia l’idea del sacrificio in termini anche solo fisici che avrei dovuto subire, vivere; però è indubbio che anche e soprattutto attraverso quello, ho sperimentato la vicinanza emotiva oltre che materiale, di quanti come me stavano affrontando un percorso analogo.
Reale o parte integrante di un velo di Maya che si fosse presentato in tale forma nel mio percorso di vita, era giunto il giorno della prima chemioterapia. Attrezzatami di tutto ciò di cui avrei potuto aver bisogno, anche solo per rassicurazione personale, non ultima una parrucca munita di “fila cinematografica” così come mi disse chiamarsi questa particolarità del supporto citato, il proprietario del punto vendita, dal quale l’acquistai, non restava che “affidarsi” a ciò che sarebbe arrivato.
Ero terrorizzata da questo primo appuntamento; come si sarebbe comportato il mio corpo…e la mia mente soprattutto? Sarebbe stata in grado di sostenere il corpo stesso, e tutto ciò? Io, da sempre spaventata, come avrei potuto vivere una cosa del genere?
I miei genitori, che non smetterò mai di ringraziare, all’esterno; non si sa mai che mi fossi ritrovata in terra durante o dopo la terapia, ed io dentro, impaurita, annichilita. Uno stato d’animo che assunse una consistenza ancor più forte, densa, quando appresi che il tutto sarebbe durato ben cinque ore, cosa che ignoravo.
Ero stata esortata a non anticipare i momenti, le ansie, ma a vivermi il qui ed ora , l’ “hic et nunc”, attimo per attimo e a porgere attenzione al clima di solidarietà ed al sentire empatico che, sovente, ci si può ritrovare a sperimentare in tali contesti, quali l’ospedale. Quel giorno, accanto a me, sedeva un anziano signore; il quale notò la mia preoccupazione nell’apprendere la durata che avrebbe avuto la prima, come le altre terapie. Quel “piccolo uomo”, rivolgendosi verso di me, mi rassicurò circa la normalità del protrarsi della stessa. Aggiunse poi di non temere gli effetti a breve termine, perché non t’impedivano di poterti rialzare e tornare a casa; così come lui, pur essendo di una certa età, per tanti anni aveva fatto, da solo. Fu molto dolce e delicato con me, che ero, come dire, alle “prime armi” al riguardo. Egli aveva rivolto lo sguardo al di là del proprio dolore, posandolo su di me e trasformando la sua sofferenza in un dono che mi stava regalando. Ancora oggi gliene sono immensamente grata. Fu allora che ebbi l’occasione di toccare con mano quell’aprirsi all’altro, in maniera gratuita, di cui mi avevano parlato; spesso tanto più evidente e palpabile in questi luoghi di sofferenza. In quel momento ignoravo quello che di lì a breve sarebbe accaduto. Mentre tutto sembrava procedere per il meglio, con me che, in alcuni momenti, mi scoprivo intenta a guardare che si svuotassero fino all’ultima goccia di “salute” le cinque bottigline di plastica trasparente e quella più temuta, la bottiglia con il farmaco fotosensibile, rivestita di carta stagnola, il “piccolo uomo” seduto accanto a me sulla sua grande e “comoda” poltrona, iniziò a sbiancare, dicendo che stava avvertendo qualcosa di strano; mai provato in tanti anni di terapia. Forse era quel nuovo medicinale che avevano sostituito con il precedente, quest’ultimo ormai testato, poiché già assunto da tempo. Fu spontaneo per me rivolgermi a colui che poc’anzi mi aveva tenuto per mano, per porgergli ora la mia, per quanto inesperta fosse. Lo rassicurai, cercando le parole più adatte per tranquillizzarlo circa quello che stava provando; aggiungendo che avevo provveduto a premere il tasto rosso per cui l’infermiera era già in arrivo per aiutarlo. Pian piano quel momento di tensione si stemperò nell’arco di un po’ di tempo; l’anziano signore cominciò a star meglio, per poi sciogliersi in un pianto liberatorio che m’intenerì l’anima, e nel racconto di quella parte della sua vita relativa alla malattia, un altro regalo che mi stava facendo.
Ecco, questo è il ricordo che custodisco dentro di me della mia prima chemioterapia, che, senza ombra di dubbio mi ha lasciato interiormente molto di più del senso di nausea, di una lingua quasi anestetizzata, o di qualche ciocca di capelli che di lì a breve sarebbe cominciata a cadere.
Quel “piccolo uomo” mi aveva riscaldato il cuore, dandomi la possibilità di restituire a mia volta quanto ricevuto solo qualche momento prima.
Nel frattempo le chemioterapie si avvicendavano l’un l’altra, e già durante la prima scoprii con sommo stupore che a metà della stessa ti portavano la “merenda” e allora potevi annusare un odore di fragranti panini misto a quello dei disinfettanti. Certo qualche inconveniente la chemio me lo portava: le unghie degli alluci si erano scurite ed alzate a causa dei capillari rottisi nella parte sottostante, ma tutto sommato ero “fortunata”, la terapia non mi portava una nausea fortissima, riuscivo a non vomitare, anzi il cortisone in essa contenuta mi risvegliava il senso di fame, era fame di cibo o…. di Vita, di Amore? Comunque quest’ultima non si sopiva e la cosa mi andava più che bene; il corpo doveva cercare di mantenersi forte per affrontare il resto. A tutto ciò si aggiungeva il calore e la presenza di persone che trasformavano il loro quotidiano impegno professionale in qualcosa di ben più che il semplice svolgimento di un lavoro. Tra queste l’infermiera Lucia che, come promesso,venne a trovarmi durante una delle mie chemioterapie; trattenendosi a parlare con me, per incoraggiarmi, per supportarmi.
Finalmente era ottobre; avevo, ormai, uno stile all’ “Arturo Brachetti”, ma ciò che contava era che avevo concluso il ciclo di terapie.
Era tempo di pensare allo step successivo: l’intervento.
Riaffioravano dentro di me domande già postemi in precedenza, “ Io, timorosa per antonomasia, come avrei potuto affrontarlo?” Non avevo nemmeno, mai, subito un’anestesia totale; la qual cosa veniva già, da me, associata ad un viaggio dal non sicuro ritorno. Ecco, quindi, che il tutto assumeva i contorni di uno scoglio davvero quasi insormontabile.
Considerata la situazione, uno dei primi passi, mossi fin dall’inizio in verità, era stato l’accertarmi di chi fosse come “persona”, parallelamente al “professionista”, il chirurgo che mi avrebbe operata, il dott. Trunfio. Da più voci di persone fidate mi era giunta conferma della sua bravura, cosa che ero andata io stessa a verificare, leggendo, tra l’altro, sul sito dell’ospedale “Cardarelli”, le tante recensioni delle donne da lui operate. Lo si definiva un’eccellenza napoletana; ma quello che m’interessava al pari della sua elevata professionalità era la sua predisposizione umana, qualità che veniva sottolineata continuamente e che accompagnava sempre le parole di ringraziamento delle sue pazienti. Assodato che il chirurgo non fosse “una schiappa”, il valore aggiunto, poi, era dato dalla presenza dell’altro chirurgo con cui operava, il dott. Liguori, del quale avrei avuto modo ben presto di sperimentare l’estrema dolcezza, che ancora oggi a distanza di mesi dall’intervento, non ho dimenticato e che non dimenticherò. Il tutto, quindi, doveva necessariamente rassicurarmi almeno un po’. Avevo a disposizione ben due chirurghi; non si sa mai che uno dei due, a causa della stanchezza per i tanti interventi, avesse un attimo di defaillance o di abbiocco, c’era comunque l’altro su cui poter fare affidamento. Ovviamente, scherzo, ma capirete bene che in previsione della prima anestesia generale, ne pensi di ogni. Avrei poi scoperto, infatti, di avere a che fare con due chirurghi “bionici”, progettati per resistere alle più impervie situazioni; che dopo dodici ore ininterrotte in sala operatoria, ritrovavi il giorno dopo, pronti alle sette del mattino a visitarti o a medicarti, più freschi di una rosa.
A corollario di tutto ciò, poi, avevo avuto modo di sperimentare sin dall’inizio del percorso terapeutico, la gentilezza e la comprensione di Roberta e Stefania; le due infermiere presenti nell’ambulatorio di senologia della Breast Unit del “Cardarelli”. Entrambe erano sempre pronte a mettersi in ascolto, pazientemente, dei mille dubbi, timori ed incertezze delle tante donne, i cui volti incrociavano quotidianamente. Nel corso delle varie visite, inoltre, avevo cominciato a scambiare informazioni tecniche miste a ciò che stavo provando in quei momenti, con Cristina, la giovane dott.ssa, medico volontario. Il rapporto con quest’ultima pian piano sarebbe andato arricchendosi sempre più, assumendo i contorni di una cara amicizia. Non restava quindi che “affidarsi” ancora una volta a quel “Qualcosa” o “Qualcuno” che trascende ciascuno di noi, e che spesso, travolti dalla tempesta di emozioni in continuo tumulto, non riusciamo del tutto a cogliere. Speravo che questa sorta di scintilla divina, di cui ciascuno di noi è custode, mi accompagnasse lungo il tragitto e che guidasse i dottori nel loro operato. D’altronde durante questo percorso varie volte, nonostante i tentennamenti, avevo alla fine dovuto affidarmi ad una “Forza Superiore” che di sicuro travalicava le mie forze, o forse fragilità.
Il breve periodo di ricovero, degenza e dimissioni fu foriero anch’esso di nuove amicizie. Nell’arco di quei pochi giorni ebbi ancora una volta occasione di sperimentare lo scambio gratuito e vicendevole, nell’ottica del reciproco aiuto, da parte di coloro con le quali, in quelle ore, condivisi ansie, timori, ma anche risate e soprattutto lunghe chiacchierate. In tal modo cominciai a stringere nuovi rapporti, ancora oggi parte della mia vita.
L’intervento fu affrontato, tra il fare determinato, deciso e preciso del dott. Trunfio e quello, altrettanto professionale e di grande tenerezza, che mi dimostrò il dott. Liguori; quest’ultimo sempre pronto ad ascoltarmi e a darmi le spiegazioni richieste.
L’operazione estirpò l’ “Aggressore”, il “Tumore”; la qual cosa era, ovviamente, quella fondamentale, prioritaria, però non nascondo che m’interrogai anche sulle cicatrici oltre che interiori, del corpo, che avrei dovuto “indossare” da quel momento in poi. Finchè un giorno m’imbattei in un’immagine accompagnata da una breve spiegazione, che una mia amica aveva postato sul suo cellulare. Ciò che recitava mi colpì profondamente. Fu abbastanza immediato per me traslare quel messaggio sulla mia persona e su ciò che stavo vivendo. Lo pensai riferito alle mie cicatrici interiori e fisiche, ed anche a tutte quelle di quanti soffrono.
L’immagine in questione rappresentava un vaso rotto, lesionato, ed il messaggio che recava di fianco diceva: “Quando i giapponesi riparano un oggetto rotto, valorizzano la crepa riempendo la spaccatura con dell’oro. Essi credono che quando qualcosa ha subito una ferita ed ha una storia diventa più bello. Questa tecnica è chiamata Kintsugi”.
Questo è il punto a cui sono giunta nella mia storia, alla quale voglio pensare non solo e non tanto come una storia di “cancro”, piuttosto come una storia d’incontri, di doni ricevuti e di nuovi legami sorti. Incontro con lo sguardo “mozzafiato” del dott. Minelli, persona di grande disponibilità, spessore umano e levatura professionale; sguardo che oggi incrocio anche solo per una risata durante un affettuoso saluto e lo scambio di una battuta. Non meno importante l’incontro con lo sguardo amorevole di Lucia, l’angelo travestito da infermiera del reparto di radiologia, che con i suoi occhi dolci accarezza il tuo sentire, prendendoti letteralmente per mano e stringendola forte per non lasciarti cadere. Incontro con lo sguardo buono, concentrato, determinato, talvolta aperto talaltra un po’ schivo del dott. Trunfio, sempre di corsa ed immerso nei mille pensieri per cercare di estirpare e sconfiggere l’ennesimo “Mostro”. Incontro con lo sguardo ed il fare accogliente e delicato del dott. Liguori, sempre lì pronto a dividersi gli oneri ed ore e ore di duro impegno con il compagno di battaglie; e, nonostante tutto, premuroso e disponibile all’ascolto. Incontro con il dott. Riccardi, intento a dosare sapientemente gli “elisir” di salute. Ed infine incontro altrettanto fondamentale, con gli occhi delle numerose volontarie, che condividono con le altre il loro percorso per cercare di aiutarle, di lenire le loro sofferenze e di farle sentire meno sole nella battaglia.
Tutto questo, insieme alla vicinanza di quanti mi amano, ha rappresentato per me “ l’Oro ” con il quale ho riempito le ferite, le cicatrici della mia anima e del mio corpo, cosicchè la mia persona potesse aspirare a trarne maggior valore, impreziosita dall’esperienza vissuta.
E’ poi giunto il giorno dell’appuntamento con l’intera equipe, riunita in seduta plenaria.
Ricordo il mio lento incedere mentre dalla porta mi dirigevo alla poltrona sulla quale avrei ascoltato l’esito finale di parte della cura sostenuta.
Ancora oggi non lo ripeto ad alta voce, ma nero su bianco c’era scritto “REMISSIONE COMPLETA DELLA PATOLOGIA”.
Non aggiungo altro, se non che il cioccolatino offertomi da uno dei miei interlocutori, lo stesso che a suo tempo mi aveva per un attimo spezzato il respiro, il caro dott. Minelli, mi sembrò uno dei più gustosi mai assaporati nella mia vita.
Angela Esposito